Album Tabucchi. L’immagine nelle opere di Antonio Tabucchi.

Album Tabucchi. L’immagine nelle opere di Antonio Tabucchi.

«Di immagini sono stato avido, lo ammetto, e quante più potevo catturarne più ne ho ospitate nelle mie rètine. E della rosa stessa, quando essa non è nient’altro che una rosa, e delle immagini lasciateci da coloro che rappresentando la rosa cercarono di vedere cosa ci fosse 'oltre'» (Antonio Tabucchi).

Ho sempre amato gli scrittori che seppero alzare lo sguardo alla volta celeste e, con la medesima intensità, abbassarlo alle nostre «vie d’intorno», dove transita la vita che ci è data da vivere. Sono gli astronomi-realisti, così li chiamo, Natura li dotò di una pupilla regolabile come un obiettivo: aprivano le lenti all’insù e mettevano a fuoco la luna; le stringevano verso il basso e riuscivano a scrutare il selciato del nostro natio borgo selvaggio. Mr. Google-Earth, dall’occhio con lo zoom, li imita male, ché del selciato riesce anche a vedere le fessure fra le pietre ma non riesce a farci sentire, come seppero fare quelli, il fruscio delle vesti che sulle stesse pietre passarono. Mi rendo conto che non riuscendo ad ammirare le stelle il mio sguardo si è posato piuttosto sulle quiete (o meno quiete) stanze che ho attraversato. Stanze che poi sono il mondo in cui viviamo e che commentatori frettolosi oggi vorrebbero così piccolo che potrebbe stare in una noce. A me pare invece vasto come il cosmo, per chi sa che soltanto attraverso le differenti maniere di rappresentarlo, cioè le infinite immagini che di esso abbiamo, possiamo capirne il senso. Altrimenti la realtà significherebbe soltanto se stessa e una rosa sarebbe una rosa una rosa una rosa una rosa. Ma cosa c’è «oltre» la rosa?
Di immagini sono stato avido, lo ammetto, e quante più potevo catturarne più ne ho ospitate nelle mie rètine. E della rosa stessa, quando essa non è nient’altro che una rosa, e delle immagini lasciateci da coloro che rappresentando la rosa cercarono di vedere cosa ci fosse «oltre».
Pittura, fotografia, cinema: il mondo come esso appare a prima vista e il mondo come volontà e rappresentazione, affinché una rosa non sia solo l’impenetrabile immanenza di una rosa, perché non tutto ciò che è reale è razionale, spesso è vero il contrario. La fenomenologia non basta, e anche se l’estetica di Aristotele non fosse andata perduta non risolverebbe il problema: per di più non ci parlava di rose, si tratta dell’errore di un copista che con certosina pazienza ha attraversato i secoli. La scolastica e la botanica sono discipline onorevolissime, e innegabile è l’utilità di Linneo, ma non è attraverso le classificazioni che si capirà il senso del reale: del resto, per quanto possa sembrare strano, anche il pero appartiene alla famiglia delle rosacee, ma fra una pera e una rosa c’è una certa differenza.
Mi è sempre piaciuto pensare che un bel giorno le rose siano spuntate dalla terra affinché Tiziano le mettesse in mano alla Venere di Urbino. Affinché gli antichi, come si vede nella tomba degli Ottavii, le facessero cogliere, gigantesche, ai bambini nei loro campi elisi. Affinché il Botticelli, nella «Primavera», le facesse spargere dal grembo a Flora, che sparge solo rose. Affinché il Pisanello le rendesse quasi più perturbanti della Madonna con la quaglia, o affinché Renoir ne desse due a Gabrielle, una per la mano e l’altra per l’orecchio. Sono loro e altri come loro che hanno dato un senso alla rosa.   Antonio Tabucchi

Autore

Thea Rimini ha conseguito il diploma di Perfezionamento in Discipline Filologiche e Linguistiche Moderne presso la Scuola Normale Superiore di Pisa dove è attualmente borsista post dottorale.

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